Ogni anno dal 2006 il World Economic Forum (WEF) pubblica una ricerca che quantifica le disparità di genere in vari paesi del mondo: il Global Gender Gap Report. Il rapporto permette di fare una comparazione tra paesi e individuare i miglioramenti e i peggioramenti in base a quattro criteri: economia (si considerano salari, partecipazione e leadership), salute (aspettative di vita e rapporto tra sessi alla nascita), istruzione (accesso all’istruzione elementare e superiore) e politica (rappresentanza). Va subito precisato che il rapporto non misura la qualità della vita in generale delle donne o il loro livello di libertà – non tiene conto, per esempio, di questioni come il diritto all’aborto o il livello della violenza di genere – ma misura semplicemente il divario quantitativo tra uomini e donne in quattro settori della società.
Nel rapporto c’è scritto che la parità di genere è «una necessità assoluta»: innanzitutto perché è una «questione di giustizia», ma anche perché la parità corrisponde a una maggiore competitività e prosperità dei paesi dal punto di vista economico. «Donne sane e istruite avranno bambini più sani e più istruiti, e questo crea un circolo virtuoso per la comunità o per il paese». Nella relazione finale, si dice poi che avere un maggior numero di donne che partecipano al processo decisionale significa anche prendere decisioni che tengano conto delle esigenze di un segmento più ampio della società e ottenere quindi dei risultati che interessano un maggior numero di persone in generale.
Dalla classifica generale – che comprende 149 paesi – risulta che nessuno ha raggiunto al 100 per cento la parità. I quattro settori considerati mostrano forti differenze tra loro. La partecipazione al mercato del lavoro e la distribuzione della ricchezza sono ancora fortemente sproporzionate tra uomini e donne: la parità, in questo settore, è arrivata al 60 per cento e i miglioramenti dal 2006 ad oggi sono stati minimi (mostrano cioè solo un più 4 per cento rispetto al 56 per cento del 2006, quando venne fatta la prima misurazione). Di questo passo ci vorranno 61 anni prima che ci sia a livello Europeo una vera e propria parità tra i sessi nel settore economico e lavorativo.
Dal 2015 al 2016 l’Italia è passata, appunto, in termini assoluti dalla 41° alla 50° posizione, e possiamo immaginare che il dato riguardante la partecipazione delle donne italiane alla società e all’economia faccia paura. Così è: l’Italia risulta nel 2018 in 70° posizione su 149 paesi per questo parametro, e ha perso sei posizioni dal 2015, e ben venti dal 2014. Basti pensare che l’occupazione femminile in Italia è inchiodata ai livelli pre crisi economica, 47,2%, contro un’occupazione maschile che viaggia sopra al 60%.
In cima alla classifica generale ci sono, anche quest’anno, i Paesi del nord, l’Islanda, la Finlandia, la Norvegia e la Svezia. Subito dopo viene il Rwanda che sta muovendosi con molta decisione. Va detto che quello del lavoro non è un problema solo italiano, seppur da noi sia particolarmente sentito (tasso di occupazione femminile italiano è sempre inchiodato sotto il 50 per cento). Per il rapporto del World economic forum, infatti, il divario tra uomini e donne nel mondo del lavoro, come partecipazione e opportunità, anziché restringersi, si allarga. Tanto che se l’anno scorso aveva stimato in 118 anni il tempo necessario per chiudere il gap, quest’anno il tempo indicato come necessario è salito a 170 anni. Alle donne non basta insomma studiare di più, formarsi anche nelle materie tradizionalmente considerate maschili, non è sufficiente nemmeno partecipare di più alla politica, se poi non trovano il modo di entrare, e restare, nel mondo del lavoro.
Anzitutto, il divario di genere è un problema di equità e meritocrazia. Inoltre, le nazioni e le organizzazioni possono essere competitivi solo se riescono a sviluppare e utilizzare tutti i talenti a disposizione. Avere divario di genere in un paese significa quindi anche che non stiamo competendo al meglio.