Uno dei paradossi che colpisce di più sul mercato del lavoro italiano è quello dei cosiddetti profili over-skilled: la difficoltà di inserire risorse con competenze troppo specialistiche o teoriche rispetto alle esigenze delle imprese. Con il rischio di creare una “corsa al ribasso” dove le qualifiche diventano più un handicap che un valore aggiunto in fase di assunzione.
Oltre questo, Il costo del lavoro italiano è il terzo più caro in Europa, con un cuneo fiscale che in percentuale del costo del lavoro è al 47,7 per cento, l'Italia, dopo Belgio (53,7 per cento) e Germania (49,6 per cento), è il Paese dove il peso delle tasse e dei contributi sulla retribuzione lorda dei lavoratori dipendenti è il più elevato tra le nazioni Ocse. I contributi sociali "versati" dai titolari d'azienda ammontano al 24%.
Facciamo un esempio concreto per comprendere più da vicino il calcolo del costo per un dipendente,
· Contributi INPS a carico azienda € 20.613,72 x 29,75% (ovvero aliquota INPS globale meno quota INPS a carico del lavoratore) = € 6.132,58;
· Contributi INAIL € 20.613,72 X 22% = € 4.535,02;
· Retribuzione Imponibile Fiscale del lavoratore € 18.719,32 (ovvero RAL meno contributi INPS a carico del lavoratore);
· IRPEF e addizionali comunale/regionale da trattenere al lavoratore € 3.606,16;
· Netto in busta al lavoratore € 15.113,16 (ovvero RAL meno INPS a carico del dipendente meno IRPEF e addizionali).
· Trattamento di fine rapporto (TFR) RAL/13,5 = € 1.526,94
Costo globale annuo del lavoratore € 31.281,32
Netto in busta paga del lavoratore € 15.113,16
Questo significa che solo il 46% dei costi sostenuti dal datore di lavoro finiscono nella busta paga percepita dal dipendente.
Con questo quadro della situazione molto spesso le aziende si ritrovano a dover fare una scelta: assumere un dipendente con il rischio di affrontare spese elevate che sarà difficile sostenere oppure ottimizzare e spesso sovraccaricare, le risorse già esistenti. Una delle vie per favorire l’ingresso di talenti passa per la riduzione di spese e lungaggini burocratiche quando si tratta di inserire in pianta stabile risorse ad alto potenziale.
Un ultimo handicap è quello della “altra faccia” del mismatch: anche tra i profili più qualificati, c'è una carenza di figure focalizzate sui settori con più offerta da parte delle aziende. Inoltre, cambiano anche le priorità delle imprese nei piani di assunzione. Cresce, in termini percentuali, la richiesta di professioni di elevata specializzazione e dei tecnici, così come degli operai specializzati, mentre si riduce il peso delle professioni non qualificate e delle professioni impiegatizie, commerciali e nei servizi. Più specializzazione diventa però sinonimo di difficoltà di reperimento, Quasi un profilo su tre, dunque, è introvabile per le imprese.
Nonostante, non tutte le problematiche legate alla mancanza personale sono legate alla burocrazia. In diversi comunicati e cronache locali, si legge un chiaro messaggio, le imprese sono affamate di giovani. “L’artigianato e l’industria hanno bisogno di giovani – sottolinea Gilberto Luppi, presidente della Lapam-Confartigianato Modena-Reggio Emilia.– ma loro sono drogati da falsi miti. Vi sono le persone che basano il successo economico sui social e percorsi accademici che non avranno sbocchi. Luppi aggiunge- “Ormai sono le madri a chiedere informazioni per i figli”. Altri commenti parlano della mancanza di voglia di crescere e di pianificare il futuro. Manca la volontà di mettersi in gioco, di accettare condizioni magari talvolta non favorevoli, ma che fanno intravedere nel futuro qualcosa di interessante. Molti ragazzi si soffermano allo stipendio e alle ferie.
Al di là delle situazioni generazionali, ci sono anche dei limiti impliciti al mercato del lavoro italiano. La transizione scuola-lavoro fra la fine di scuole-università e inizio del lavoro è severamente dilungata. L’Italia è tra i pochi paesi Ue dove a un laureato occorre più di un anno per farsi assumere, ma i tempi restano estesi anche per chi esce da corsi - in teoria - formativi come gli istituti tecnici e professionali. Le imprese lamentano la difficoltà di trovare profili adatti. Ma spesso il problema andrebbe rovesciato: le 0fferte delle imprese cadono a vuoto perché studenti e neolaureati non possono essere in possesso di tutte le qualifiche richieste dalle aziende. Ma devono essere formati in corso d’opera. Peccato che ad oggi, secondo dati Istat, solo il 60% delle imprese abbia erogato corsi di formazione interni.
La propensione al training aumenta nelle imprese di grande dimensione: un segnale spiacevole, per un paese dove oltre il 99% delle aziende è di taglia media, piccola o micro. «Molte aziende sono convinte di trovarsi degli “studenti pronti all’uso”, come se dovessero essere già formati - spiega il sociologo Emilio Reyneri, professore emerito all’Università Bicocca di Milano - In realtà spetterebbe a loro, ma spesso non possono o non sanno farlo
Paradossalmente, oggi alle aziende viene richiesto di soddisfare l’offerta di lavoro espressa dai candidati. E una delle novità è che i candidati non sono più passivi, anzi interloquiscono con le imprese e contrattano. Non c’è da scandalizzarsi, allora, c’è da chiedersi come la domanda di lavoro delle imprese possa essere appetibile per l’offerta dei candidati che, pur con i limiti descritti, detta molte delle regole del mercato.
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